Dipinto di Jane Corsellis
Persona cara, non conosco la tua lingua.
Una mela cade oltre le nuvole.Aspettiamo la pioggia.
Ormai per l’ennesima notte ci accompagniamo l’un l’altro.
Non ci amiamo fino a morirne, ma fino
al lavaggio delle strade,
fino al sole rivolto di profilo verso il Sud.
C’è sempre più spazio tra queste pareti; ecco che di nuovo
l’ultimo ripiano della libreria oggi si è reso trasparente,
ma il nostro legame è tanto oscuro e infido quanto
l’ortografia dello jat*;
tu hai detto una parola, io non l’ho capita, anche se
probabilmente è quella giusta.
Le tende sono strappate, le porte spalancate, una mano
è trattenuta appena nella stretta – macché…
Anche tu sei farina degli eventi, che di colpo si è sollevata;
una corrente, e nessuno che ci metta una toppa.
*jat: lettera dell’antico alfabeto slavo ecclesiastico
Da “POESIA”(dicembre 2002)
*
Ai non addetti
Andarsene da sé, nel deserto postprandiale di luglio, in giro per una città del sud, calpestando foglie e fiori sfioriti fruscianti, pennacchi marroni caduti, stami e pistilli usati. Il ricordo di un'unione trascorsa, che va in polvere. Molli gondoni accanto alle macchine, in un parcheggio abbandonato.Scivolare via da sé, in giro per le strade notturne dell’urbe, in un’estate appena cominciata e già soffocante, lungo i tunnel creati dai pini, nel verde nero delle nuvole
inchiodate sul cobalto del cielo. Estraniarsi lentamente da sé, come da qualcosa di avvenuto e definito; da sé, dalcentro, trasferendosi al confine.
La città alle quattro di mattina. Un negro impallidito. Dall’oscurità, lungo la brusca virata di un’automobile, sotto la luce abbagliante dei lampioni, gambe nude e muscolose in bilico sui tacchi.Travestiti sorridenti, colti di sorpresa, a piccoli branchi spediscono baci nell’aria.
Quando non ami nessuno, sembra strano che tu possa aver amato qualcuno prima. Non ti ricordi più com’è stato, anche se è successo poco tempo fa. L’amore gira attorno a quello stesso centro con cui ti fondi; dopo, ti ritrovi nel mondo come in una località sconosciuta, in una periferia invasa dall’erba.
Uno di loro giace sulla schiena nella via sorda, cerca invano di aggrapparsi al corpo della macchina, si rialza a fatica dall’asfalto. Sotto la luce dei fari un volto tutto insanguinato, capelli lunghi, seno superbo, tra le gambe glabre e scomposte il membro, color mattone. Un povero centauro, che tenta di compensare l’assenza di una chiarezza centripeta con la sua tragica audacia, che è la parodia di qualunque chiarezza. Dio sa che noi fabbrichiamo noi stessi in
una periferia inaccessibile all’occhio e che solo i lebbrosi e gli spavaldi sanno ammetterlo. Benché il mondo sia andato in frantumi da tempo, benché tutti sappiano tutto da tempo, tuttora in alcune città del sud ti chiedono se hai il fidanzato e se nel corso di qualche festa conversi a lungo con qualcuno che non è lui, cominciano tutti a sentirsi in imbarazzo, lo stesso “fidanzato” torna a casa sconcertato e la gente del posto ti guarda con un malcelato sorriso.
La mia città del sud, dove sono capitata qualche anno fa, possedeva una lunga storia. Già dal nome però appariva lampante la sua incongruenza con se stessa. Che rapporto aveva con quel glorioso passato? Col centro del mondo — concetto elaborato da lei stessa per la prima volta, trasformando l’universo abitato in provincia e irradiandosi in tutte le direzioni ?
Una volta era piena di giardini e di orti e anche adesso, ogni tanto, ricorda la campagna. Solo in tempi assai recenti il sindaco ha vietato di tenervi animali da cortile e uccelli, nonostante, come un tempo, raccogliessero la messe degli alberi da frutto e talvolta, alle quattro del mattino, un forsennato gallo di contrabbando emettesse il suo chicchirichì.
Il popolo che l’abitava tendeva al meticciato. La sua lingua era rozza e oscura. I suoi costumi, in gran parte, selvaggi. Il suo carattere, all’apparenza bonario, si rivelava sospettoso e chiuso.
Conquistarsi la sua fiducia pareva difficile, se non addirittura impossibile, soprattutto se non possedevi quell’arte della raccomandazione, dell’appartenenza e dell’entratura qui virtuosisticamente coltivata. Questo popolo era dotato di funzioni sessuali e digerenti assai sviluppate, soprattutto quest’ultimo aspetto era accompagnato da autentico entusiasmo e aveva un significato pressoché pannazionale.
Il primo invece era condizionato da secoli di cattolica ipocrisia. Qui la vita extrafamiliare era fondata sulla gerarchia sociale, su una lotta segreta condotta attraverso una sottile malevolenza, mai espressa direttamente, a dire il vero.
Sarebbe stato impossibile stupire i Mani con checchessia; anche se all’improvviso il Papa si fosse convertito alla religione musulmana, oppure se due elefanti, l’uno in groppa all’altro, fossero passati in volo sulla città, loro avrebbero sentenziato: già visto. I loro concetti di buon gusto, cattivo gusto, irriconoscenza, infantilismo sociale coincidevano stranamente con i nostri concetti di falsità, insincerità, ruffianeria, tradimento. I Mani sono dei finissimi psicologi, quasi a livello animale, sensuale; perciò i Rani, con la loro impetuosa semplicità, ci cascano e si lasciano abbindolare più facilmente degli altri.
Non esistono caratteri più opposti di quelli dei Rani e dei Mani. Tra loro non ci sono quasi punti di contatto (a parte i luoghi comuni e, lo ammetto, il sistema burocratico complicatissimo). Il significato della famiglia in questa città è inviolabile. Ogni anno, il ventiquattro di dicembre, loro si riuniscono e stanno a tavola fino al mattino, una portata dietro l’altra, ciascuno nella sua sconfinata famiglia, teneri coniugi traditori, nonne, bisnonne e perfino bisnonni, perché, a
differenza dei Rani, i Mani sono vitali e imperituri. In generale, la mia prima impressione fu che, nonostante i principî rivoluzionari del passato, si trattasse di una società inerte e soffocante, intenta a rincorrere la propria coda. Però, per la sua bellezza e irripetibilità, questa città non teme rivali al mondo. E così, perdendomi di vista sempre più, ho finito per amare anche i Mani. Il mio sguardo rettilineo non prendeva in considerazione tortuosità e caverne; eppure proprio in esse, talvolta, nasce la vita. Il loro cinismo ha resecato i cocuzzoli della mia magniloquenza — buona, in fin dei conti, neanche a condire l’insalata.
Il tramonto si stava diffondendo nel cielo e, in effetti, solo la sovrabbondanza d’acqua della mia città natale doveva impedire alle lacrime di scendere. Perché proprio in quel momento vidi come una pioggia improvvisa, facendo straripare
le vasche delle fontane, scorresse dalle vele tese degli ombrelli. Mentre ero impegnata a asciugarmi le guance, arrivò il mio quarantesimo compleanno. Possibile che un giorno avessi potuto dubitare di un simile avvenimento?
Ovviamente, come tutti i bambini, Al si sentiva stabilmente al centro dell’universo. Un centro dove, fra l’altro, udiva più spesso la parola “pigrizia” che il verbo “stabilirsi”, ossia un posto dove tutti sono svogliati, pigri, prigionieri. Il centro che aveva trovato spazio in Al era tuttavia alquanto misterioso: un centro segreto. Pareva che tutti si fossero messi d’accordo appositamente per far finta di niente, per non rivelare dove si trovasse esattamente. La madre era distratta, come estranea; il padre, da una parte, era gonfio di vento (proprio dalla parte delle sue ali ricurve, appena abbozzate...), dall’altra colmo di un pathos edificante che richiedeva, di tanto in tanto, di essere applicato.
La nonna...Beh, meglio lasciar perdere. Ma, visto che ormai ci siamo, è evidente che la nonna era una strega. E sebbene la chiamassero teneramente nonnina (o, meglio, sebbene lei stessa avesse deciso che dovevano chiamarla così), questo nomignolo contribuiva soltanto a smascherare ancor più la sua carne forestiera che, talvolta, luceva di una lontana, palustre azzurrità. Un’azzurrità al neon. Così luceva anche Košej l’Immortale, che appariva in un cerchio roteante in fondo al corridoio, dalla camera dei bambini al gabinetto, di corsa, no, anzi, lentamente, ansimando in
silenzio, con pause che duravano milioni di anni. (La solitudine che Al provava nel corridoio è paragonabile solo al tunnel che le sarebbe toccato percorrere al momento della morte. Ma di questo, forse, parleremo in seguito). Con la nonnina invece era in corso una guerra di nervi ai massimi livelli. Ad esempio: non accettare da lei caramelle, peggio, sputare la carne della minestra (non masticata fino in fondo, perché filamentosa) nel gabinetto, attendere nascosta
sotto il tavolo la sua apparizione e agitare su di lei la falda grigia di una bacchetta, nella quale abitava uno spirito. A questo spirito sovraintendeva la sorella, che spingeva Al a forza nella stanza buia e evocava lo spirito, agitando bruscamente la bacchetta. Ma una volta la bacchetta (dimenticata dalla sorella) come il bastone di Aronne, fu portata fuori dal suo angolo per scacciare, in un sacro soffio, il male dalla nonna, che si era appostata. Bisognava agitare su di
lei la bacchetta animata dallo spirito, spezzare i suoi incantesimi e salvare mamma e papà. Accadde proprio nella sua stanza. Ella si contrasse e cominciò a sibilare, ora avanzando, ora retrocedendo... ma l’accordo era di tacere e di non raccontare di questo a nessuno, altrimenti tutti gli esorcismi sarebbero stati inutili. Guardarla soltanto, immobile, con occhi blu blu blu. Non sono stata io, l’ha fatto un’altra bambina, Olja.
Beh, allora puniremo Olja, dov’è dov’è questa Olja, carognetta — domandarono i miei genitori. Sì, da qualche parte esisteva quest’Olja insolente, con la schiena dritta e le gambe magre di ballerina. Si comportava male, ma riusciva sempre a sottrarsi alle punizioni. Tuttavia, il corso degli eventi instaurava qualche forma di rapporto tra Al e Olja.
Quando Olja giocava i suoi brutti tiri, anche a Al rimordeva la coscienza. Forse Olja esisteva in un mondo al di là dello specchio, dall’altra parte, sul ciglio di una strada che rasentava, sia pur incidentalmente, la sfera di Al, oppure da qualche altra parte ancora. Ma era chiaro che se Olja esisteva, Al non era più soltanto Al, ma era anche Olja, seppur con i difetti causati da una fiacca tensione esistenziale. Il fatto che il centro nel quale si trovava Al a volte potesse rispecchiarsi, cambiava molte cose. Se una parte qualsiasi di Al (sia pure un riflesso) si trovava all’esterno, ne
conseguiva che Al non era più il centro. Le cose non erano uguali a se stesse. Ovviamente, non nello stesso senso di quando lei e la sorellina vestivano il gatto Dymša con gli abiti della bambola Katjuša; con la cuffietta, tutto baffuto, lui s’infuriava, ma poi veniva domato.
Nel caso del gatto Katjuša, tutto sommato era evidente che si trattava di una mascherata; Olja invece rimaneva sempre Olja, come una grandezza costante. Il centro che dà un’occhiata alla periferia cessa di essere centro, viene contaminato dall’ambiente circostante, come un fiore. Tuttavia, senza di lei esso è impensabile. Così, rifluendo l’uno nell’altra, essi si scambiano la loro massa, come una stella gigante con una nana. Nel mondo delle banali opposizioni binarie, volente o nolente, finisci col pensare al centro. Per il nostro piatto modo di pensare, la cosa più semplice ovviamente era immaginare questo centro inesistente come la metà del segmento tra due punti. Ma il segmento è un raggio e il centro il suo semiraggio. La periferia tende al centro, la forza di quest’attrazione la rende così incandescente che il calore l’aiuta a spostarsi verso il centro, inondandolo come lava. La periferia è l’ultimo margine, un precipizio, sabbie mobili.
Solo nel punto più estremo e desolato, sull’orlo dell’abisso, può nascere un nuovo, autentico centro. Nel caso delle città è possibile, ovviamente, una traslazione a latere della posizione geografica, ma nulla più. Mosca, tutto sommato, è la terza Roma, provincia di Bisanzio che, a sua volta, è provincia di Roma, provincia della civiltà etrusca.
Con la nonna invece tutto accadde così. Lei si lamentò che Al avesse agitato la bacchetta su di lei; lei (la nonna) era a malapena riuscita a schivare il colpo! La nipotina aveva alzato la mano sulla sua vecchia nonna — dichiarò la nonninanonnetta. La nipotina terribile si era rivoltata contro la sua nonnarella. Ecco che cosa le insegnavano! I genitori si consultarono brevemente e iniziarono a dare la caccia a Olja. La cercarono. Non troppo a lungo. E, come al solito, non la trovarono da nessuna parte. E poi successe una cosa terribile. La mamma si sdraiò sull’ottomana, il papà prese Al per il braccio e la mise col volto alla parete. Alle spalle di Al qualcosa scricchiolò, poi tintinnò e poi arrivò come una specie di dolore. Ossia, avrebbe dovuto essere dolore, ma Al non lo sentiva. Al, cioè io, ormai, si voltò indietro, verso la mamma che guardava dalla sua loggia la platea della stanza. La mamma contemplava tranquillamente come la cinghia danzantesollevasse folate di vento e come i nastri azzurri da lei legati ancora ieri fluttuassero dalle treccine arruffate.C’era
naturalmente qualcosa di ignominoso in quello stare in piedi col volto rivolto al muro. Il centro che si trovava in Al, cioè in me, come una luce disinnescata, si rattrappì per un istante. Sulla carta da parati crescevano fiorellini gialli e azzurri.
Io entrai in questo campo in fiore e ricordai come una volta mi avessero dato una mela. Stavo seduta su un cassettone di legno rosso in una stanza enorme, loro mi diedero una mela perché non piangessi, perché quando gli adulti gridavano o si picchiavano dopo volevano tranquilizzarmi. Mi vestivano come un orsetto e io avevo sempre caldo, forse per questo adesso ho sempre freddo.
Stavo seduta impellicciata molto in alto o, almeno, così mi pareva allora. La mela era così grande, pesante e sfericamente perfetta che mi si mozzò il fiato. Avevo capito che lo spazio è poroso, che è pieno di porte e di tasche.
Ora, finalmente, la sparizione di alcune cose si spiegava. A volte, una palla, una perlina, una parola rotolava via e non tornava mai più. Adesso, camminando nel campo in fiore, pensai che anche le persone non possono essere perenni.
“Quando muori, io sputerò sulla tua tomba e ci ballerò sopra”, disse una volta la nonnina a mia mamma. Immaginai una nonna nana danzante, che ballava sfrenata sul umido dentro cui mia madre giaceva, senza poter uscire di lì. La mamma diceva che la nonna, in realtà, era sua mamma. Mi dispiaceva che le fosse andata così male. La mia mamma era molto meglio: almeno era bella, non aveva il volto così allungato come NanoNaso e non mi voleva seppellire nella terra e saltarci sopra, perché non ne potessi uscire. Alla sola idea iniziai a soffocare. Presi a inghiottire l’aria. Il campo in fiore cominciò a ondeggiare e io caddi di piatto.
Ogni domenica io e mio padre andiamo a fare una passeggiata. Al in compagnia di un uomo lunghiiiiissimo va a fare una passeggiata. Di solito, passano sotto l’arco con l’enorme orologio. Passare oltre quell’orologio è piuttosto imbarazzante, perché esso sembra sapere (o controllare) qualcosa, e quando Al percorre quel tratto, di solito, china la testa. Poi escono sulla piazza
enorme, al centro della quale si eleva una colonna rosabordeaux. Ovviamente, si tratta della colonna più alta del mondo e, come tutto ciò che è grande, mette i brividi, soprattutto quando s’ingigantisce e s’incurva, mano a mano che tu t’avvicini, cosicché a volte tocca girarsi, per non correre pericoli. Sul suo piedistallo hanno luogo i giochi di Al. Girare intorno alla colonna molte volte in un senso e poi nell’altro, correre intorno alla colonna in un senso e poi nell’altro,
camminare senza calpestare le crepe nell’asfalto, camminare, mettendo il piede ogni due crepe, stare seduta sul piedistallo. Dall’angolo a sud, dall’angolo a nord, dall’angolo a est, dall’angolo a ovest. Dal primo si vede una casa a quattro piani con piccole finestrelle in basso e, dietro di lei, il fiume, la Mojka. Dal secondo un’altra casa grandegrande e un passaggio che non porta da nessuna parte, dal terzo (da dove abitualmente spira il vento) si vede un giardino sconfinato e un palazzo color rossomarrone che chiamano semplicemente d’Inverno, perché là si trova il giardino pubblico invernale dove Al, d’inverno, passeggia di solito con i bambini dell’asilo. E appena un po' più in là scorre la Neva. Dal quarto angolo si vede una casa gialla semicircolare con un doppio arco gigante. Sull’arco ci sono dei cavalli al galoppo, sei folli cavalli; ai lati dei forzuti con delle lance e al centro un omino alato su un cocchio. Se si passa sotto l’arco, la casa sembra vicina. Di solito accanto al palazzo d’Inverno, in autunno e in primavera, ci sono delle impalcature di ferro con le quali costruiscono a lungo una tribuna che arriva all’ultimo piano del palazzo. Sulla piazza marciano in su e in giù soldati e la voce al megafono grida:
“Asssinistra!” “Adddestra!” Poi, dopo un po', sulla tribuna che hanno costruito, coperta di rossa, si arrampicano dei vecchietti e tutta la piazza si riempie di persone che sfilano a passo di marcia (come Al durante le lezioni di ballo all’asilo) e gridano “Urrà”, in risposta alla voce metallica e assordante degli vecchietti asserragliati lassù. La voce grida:
“Viva l’unione delle repubbliche socialiste sovietiche” e altre cose ancora, che cominciano sempre con “Viva”. I grassi vecchietti agitano la mano dall’alto, la gente trascina in spalla bandiere e manifesti e si gonfia tutta orgogliosa, passando oltre i vecchietti. A parte i ritratti di questi vecchietti, sulla piazza sono esposti dappertutto quelli di un altro tizio ancora. I ritratti di un uomogigante. Quando passi sotto di lui, in spalla a papà, sembra che ti voglia schiacciare con la suola sollevata della scarpa. Di solito sbuca fuori in berretto grigio, con la barba e un nastrino rosso sul petto.
Spesso la gente porta anche lui sui suoi manifesti. Qualcuno mi ha detto che è il mio nonno, sento di essere cattiva, ma non mi piace e quando arriva sulla mia piazza, ho paura di lui.
Alexandra Petrova / trad.Valentina Parisi & Ph.Pogam
(Sud, rivista europea, 4/5 - 2005)
Biografia:
Alexandra Petrova nasce a Leningrado nel 1964. Ha vissuto a lungo in Israele e risiede in Italia dal 1999. Oltre a varie collaborazioni con riviste italiane e straniere, ha pubblicato nel 1994 la raccolta poetica “Linia Otriva”(Punto di distacco)e nel 2000 il libro di prose e poesie “Vib na dijitelstvo”(Vedute sull’esistenza). Nel 2003 pubblica l’operetta filosofica “I pastori di Dolly”. La sua ultima raccolta di poesie “Altri fuochi”, è stata pubblicata da Crocetti nel 2005.