L'opera prima di Sylvia Pallaracci è un tuffo a piedi pari nei sensi. L'autrice si racconta espellendo,tramite la parola,tutte le possibili sfumature che il corpo riflette nella sua immagine ferma. Dalla sua posizione in apparenza immobile, ogni variazione si moltiplica addensandosi, pervadendo il lettore di contenuti che lo rendono intimamente partecipe di ciò che avviene, analizzando dettagli con occhio profondo eppur distaccato dall'evento. Riflette fra sè e sè Sylvia, trae conclusioni, dà avvertimenti, cita se stessa per timore di non essere ricordata, si autoafferma moderandosi talvolta, esagera l'impeto del corpo e della mente come costretta a soccombere ad un limite da non superare mai. Ferma eppure in movimento, essa vive una condizione innaturale della normale attitudine al dire di più, tenta i passi laddove non si cammina, cerca acqua dove c'è deserto. Si spinge sempre oltre, cosciente di non riuscire mai ad andare dove vorrebbe se non ferendosi o ferendo. Una poetica che pare si possa toccare, versi traino di una vita concreta che sembra mancare di leggerezza. Per non disturbare nessuno, le parole girano su se stesse sebbene non risparmiando, chiamando in causa compagni di strada distratti, promesse non mantenute, avventori di passaggio. La vita osservata, il corpo in mutevole subbuglio, la carne che brucia le migliori intenzioni e la fatica del credere che si può vivere entrando ed uscendo da una ferma immobilità materica per conquistare l'impalpabile e il non visto, il non detto, la verità. Gridandolo a voce alta.
Federica Galetto
Conditio sine qua nonMi scopro sempre
qui, nell’alveo che converge
tutta la mia discendenza
ruvida e al femminile;
il puntaspilli di un rovescio
di mano in disuso
di prudenza
Dico e mai disdico
che la verità non sempre è vera
che ho amato ogni volta
le cose imperfette
perché al contrario
ho rilevato forme irregolari
mi sono riempita
di un irrequieto chiedere
per svuotarmi
di uno stentato esistere
l’indole mia reclama una pietà
che appartiene solo a me
e alla mia indecente anarchia;
altro non è dato sapere
e col dorso spigoloso del polso
ora asciugo le labbra
da tanta logorrea
Di me dite solo questo:
“Essere stata è la condizione
perché lei sia”
EclissiFu così che ci inginocchiammo
intrisi di gloria e martirio
a cercare nell’esitazione della carne
il collasso della luce
scivolammo fragili
dentro percorsi inviolati
senza lasciare tracce
dei nostri gesti
indelebili
Così ci inginocchiamo
e scivoliamo fragili
mai stanchi
di vivere e morire
FuggevoleCome l’ago
che imbastiva la trama
e mai bastava a (s)velarci
le parole
mi faccio piccola
perché tu abbia ora paura
a smarrirmi
perché quando entravi tutto
nel mio ventre
ti era difficile immaginarmi
altrove
È solo questione di…Lasciami dimenare
dalle tue tregue
che mi riprendono
senza voce
e fammi scivolare a ritroso
dove il tuo fiume s’infiora
Curvami all’indietro
e risalimi
come un destino gelido
che rovina dentro il fuoco
Non è la mia voglia
che ora ti impone
ma l’inclemenza della tua gravità
sulla membrana che ci separa
E' solo questione di
Fiera, allo schiocco di frusta
mi volto
in uno scatto che prescinde
permessi e aduna pretese
nel tuo nome
urgenza selvatica di bruna ninfea
cuoriforme mi sfoglio
sulle contrazioni del tempo
all’infinito
e mi sei carne
Tacchi a spillo per l’estrema unzioneNon meravigliarti ora
se non riesci più
a trovarmi
chinata, a racimolare pietre
che accumulavano sabbia
hai sottovalutato
il rosso incerto delle profondità
e ti sembrò d’esser salvo
in quell’andare quieto
d’ombre agli angoli;
ma tu non sai la bellezza
che disvela una tenebra
quando una scheggia di sole
insidia i tramonti
non distingui quel tremore
di tacchi
nel continuo cigolio
delle spallate alla mia porta
[un solo gesto galante
le sarebbe olio naturale]
e tra un acuto e un basso
di gola, ti lascio
alla notte che semina e matura
i frutti che ti nutrono
alle spine
Dove ritorna la mia storiaMi aggrappo al tuo corpo
come a un diritto naturale
e ti provoco l’amore
che mi dai
sottovoce
portando ai limiti
dell’inflessione i sottintesi
le tue labbra si disfano
con quella grinza che mi stende
e mi rimpolpa
i sensi
assuefatti alle ossa
mani rapaci -quasi crudeli,
per salvarmi-
afferrano i fianchi
sfrontata allento la presa
e mi lascio (s)finire
un nervo affilato di piombo
e mercurio attraversa le scapole,
mi scinde e mi precipita
fra inferno e paradiso
mentre mi faccio tempo e spazio
senza misura, per contenere
ciò che di te non si trattiene
perché tu sei sterminato,
simile alla terra,all’acqua,al fuoco
al ventre di mia madre
La costola di Adamoio ti piango dentro il fianco
l'amore, che scava un punto
dove potermi ritrovare,
sola
tu fai un sospiro
come l'ultimo ruggito di un secolo
che non mi è appartenuto
quando eri custode fedele
di nicchie a fiero emblema di eventi
ti chiesi perché
scegliemmo i nostri occhi
per lasciarci dietro dio
e inchiodarci all' esistenza
tu non sapevi
io già non volevo sapere
e fu così che venimmo a patti
con le assenze, tra un punto e l'altro di sospensione
e vedemmo trasalire
il silenzio
agli echi delle stirpi di ogni tempo
selve di corallo tra inguini rocciosi
e sponde infrante da flutti sul morire
"ci sfalderemo assieme", ti urlai
quando capii il tormento
che avrebbe lasciato
sulla mia pelle
un sedimento aperto
da tutti i suoi domani.
Ora che non posso sentirmi,parlo con me…dimmi
se tornerà
il buio pesto che ha svelato
la sua luce
se questi tremori nervosi
sono solo pelle
non più capace
di rientrarmi
o ultimi strascichi infreddoliti
di una primavera
tardiva
se sopravviverò a questa tragedia
della vita che cambia
nella mia forma che la fissa
invariabile
[dare un senso ai giorni che lascio andare
che non l’aspetto
mi assicura
la follia ]
nella consuetudine della pioggia
le nuvole si annodano
senza scomporsi
le parole risuonano
male sulle labbra indurite
e si spaccano
al rintocco improvviso
degli accordi di ieri
disgiunte le membra livide
di scuse,senza più fede
mi spalanco come una croce
di traverso
e resto a sorvegliare
l’assalto del dolore
a tradimento
nella mia assenza sconfinata
Sylvia Pallaracci, “Mi salvò l’ala sonora”, ed. LietoColle 2011
BIOGRAFIA
Sylvia Pallaracci nasce nel 1976 a Foligno – in provincia di Perugia – dove tuttora vive e lavora, occupandosi di scienze mediche.
Scrive da sempre, ma solo nell’età adulta ha scelto di portare in luce la sua intima passione, partecipando ad iniziative e concorsi letterari nei quali ha ricevuto premi e consensi da parte della critica.
Sue opere sono presenti in antologie poetiche; scrive inoltre per diversi blog e riviste culturali, alle quali collabora anche come recensore.
In Sylvia l’essere coincide con il sentire. Il suo dire attraversa e gela il fuoco e un’attenta distrazione la conduce incessantemente a perdersi – fino a scomparire – per ritrovarsi ogni volta, ininterrotta, nella parola.
“Mi salvò l’ala sonora” è la sua opera prima.