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Traducendo Einsamkeit

STANZE DEL NORD

SCORRONO LE COSE CONTROVENTO di FEDERICA GALETTO

ODE FROM A NIGHTINGALE - ENGLISH POEMS

A LULLABYE ON MY SHOULDER di Federica Nightingale

EMILY DICKINSON

mercoledì 28 ottobre 2009

HENRY AJUMEZE OBI

Foto Travel Picture Nigeria ©








HENRY AJUMEZE OBI
Poesie tratte dal libro “Dimple in the sand”
Hybun Publications International – 2009









In the beginning, was Anioma

The sun spreads its rays
Over this land
The streaks lead my footsteps in the evening
And I run naked in Isu, barefoot, to every hut
Where footpaths snake debris of thatch-roof
Cascaded by fury of the harmattan
The labyrinth reins my soul to the moon of every song
I wait for the moon, sitting on threshold of the evening…
Suddenly in the rain, strutting about
My ass glistering with pelts of waters, harsh like sands in a cyclone
I hold on to this distant memory of waters and wind
This is Anioma, where waters flap ways in a handshake of ripples
Between the Niger and Oboshi
The deep dark silence of Okpachi
Waters circle us like a halo of frontiers
The heartbeat of Anioma is the breath of an elephant
I hold on to the distant memory of this earth, this Anioma



In principio, era Anioma




Il sole stende i suoi raggi
su questa terra
Striature conducono i miei passi nella sera
e io corro nudo nell’Isu, a piedi scalzi,
verso ogni capanna dove sentieri serpeggiano fra
macerie di tetti di paglia
devastati dalla furia dell’harmattan
Il labirinto trattiene la mia anima
alla luna di ogni canzone
Aspetto la luna, seduto sulla soglia della sera
All’improvviso nella pioggia, camminando sostenuto
Il fondoschiena luccicante di scrosci d’acqua,
violenti come sabbie di un ciclone,
mi aggrappo a questo lontano ricordo di acqua e vento
Questo è Anioma,dove le acque s’agitano
come gorgoglii in una stretta di mano
Tra il Niger e l’Oboshi
Il profondo oscuro silenzio di Okpachi
Acque girano intorno a noi come un’aureola di frontiere
Il battito del cuore di Anioma è il respiro di un elefante
Mi aggrappo al lontano ricordo di questa terra, questo Anioma







Night opens my mind

Night opens my mind
like a window
hinged on broken frames
And these hues
of memories clatter past
like a storm
that slits the mind
I walked into her room
Nondescript, littered with
relics of yesterday
askew with utensils of laughter
I walked through
the uncultured raffia
of wigs lying on the rug,
bottles of perfume
comb
unbound handouts
ear-rings
broken strings of waist beads
I flipped through the pictures
And beheld, again
the smiles that stretch
across her face
to the brink of eternity
tableaux of myriad silhouettes
on the pages
the album opens
like a cascade of jeans
And veils of pink
Songs come at me
with gusts full of dreams
And the past stands
in the ante-chamber of my hearts
threatening,
like the volcano, avalanche of katrina
erupting, detonating the shock
that exploded my soul
that Wednesday night
I stand livid
in the crossroad
of metaphors; I become one
with grief...






La notte apre la mia mente



La notte apre la mia mente
come una finestra
su un telaio rotto
E queste tinte
del ricordo fanno baccano, di corsa
come un temporale
che squarcia la mente
Sono entrato nella sua stanza
Ordinaria, costipata di reliquie di ieri
di sghimbescio con arnesi di risate
Ho camminato attraverso
l’incolta raffia
di parrucche adagiate sul tappeto
bottiglie di profumo
pettine
cose sparse
orecchini
lacci rotti di perline da legare in vita
Ho sfogliato le fotografie
e ho visto ancora
i sorrisi tirati attraversarle il volto
verso un lembo di eternità
quadro vivente di miriadi di silhouettes
sulle pagine
che l’album apre
come una cascata di jeans
e veli di rosa
Canzoni vengono a me
come raffiche colme di sogni
E il passato sta
minaccioso
nell’anticamera del mio cuore
come il vulcano,la valanga eruttante
di katrina,
detonatore della scossa
che aveva esploso la mia anima
quel mercoledì notte
Rimango livido
all’incrocio di metafore;
ero diventato portatore
di pena….




Ajumeze Henry Obi ©

Traduzione di Federica Nightingale ©






Biografia:

Nato in Nigeria, Ajumeze Henry si laurea in Arte e Teatro presso l'Università di Calabar. Le sue poesie sono state pubblicate in For Ken, For Nigeria, un'antologia di scrittura contemporanea nigeriana edita da E. C. Osondu, vincitore del Caine Prize for African writing nel 2009,e su giornali letterari on line a sfondo poetico e politico, The Potomac, Outsider Writer's Collective, Ibhuku: Southern African Journal of literature, e AfricanWriters.com. La poesia di Ajumeze ha trovato anche ampia pubblicazione nelle pagine letterarie dei più importanti quotidiani nigeriani.




lunedì 26 ottobre 2009

MAX BELLA

Foto di Paal Bentdal ©








"…animula vagula blandula…”





Ho radici ai monti


La giumenta
di legna greve incatenata
ondeggiava contorta d’autunno
rantolava al sole
imprecando sulla china stretta
piegata dal crinale
verso dadi bianchi tra i monti
e fazzoletti di grano
sudati senza posa
poveri di fatica contadina
spasmi di cuore

bambino io
la mano di quercia annodavo
del nonno incanutito
che trottava
nel sogno già arrancavo
su per l’aia
- cortile blu del mondo -
alla ruvida casa di pietra
illuminata
al pane caldo di forno della nonna
odorosa al miele degli armenti

occhi azzurri di malinconia
fiero
il nonno sorrideva
canticchiava
poi sembrava dicesse
segui
ascolta questo ritmo
di chiodi bullonati nella suola
zoccoli e ferri levigati
senza tempo
fanno polvere i passi
e qui
nuvole d’acciaio sono
lega di impasti uguali
per tutto il tempo

ma osserva
diceva
il cielo a questi monti
è sempre chiaro.





Il cielo in cima


Poso qui i miei occhi
i tuoi nel fondo

sono questo tondo
di cielo terso
confine dei faggi illuminati
gagliardi dardi al sole
nel cuore del mondo.





Vorrei l’ultimo giorno


Vorrei raccogliermi intorno stretti e vocianti
tutti i fiorigiorni che ho visto crescere
tutti i sassi bianchi che hanno indicato la via
gli occhi tondi di tutte le donne amate
perdonate e che mi hanno perdonato
le strisce sudate di pungenti malinconie
le braccia al cielo dei doni in sorte ricevuti
le languide carezze e i versi scritti da tutti i gatti
le vaporose figure del padre e della madre
i fratelli congiunti nei viaggi esplorativi
e i tanti figli che non ho conosciuto
i profili indulgenti delle vive montagne
e il brusio salmastro dell’onda dell’isola incantata
le foglie ispirate dal dio del colore in autunno
le stagioni trascorse nell’ascolto e nell’attesa
nella pioggia lucida del sole della perseveranza
gli ardimenti osati in purezza di cuore
e le cupe inquietudini della grigia paura
i sogni inverati quando suonava musica
le stanze raccolte delle case ospitali
e le strade illuminate nel mondo della meraviglia

vorrei l’ultimo giorno circondarmi di tutto questo
ed altro ancora celato per me solo nel pudore
nel magico giardino di luce del silenzio
in un assolo d’abbraccio universale
in un pianissimo sorriso
con un bacio
al vento.

Max Bella ©



NOTA BIOGRAFICA

Sono nato, per caso, a Roma, dove vivo, lavoro e scrivo per diletto.
Ho tuttavia le mie radici là dove originano le sorgenti, e l’aria è più azzurra e fresca vicino al cielo: i monti d’Appennino centrale. Percorro da sempre i silenzi di quelle valli, degradanti tra il Terminillo e il Gran Sasso, con il gusto della fatica nuda, tra prati arrampicati e sassi infiniti affastellati sui crinali.

sabato 24 ottobre 2009

THE WORLD ACCORDING TO POETRY: FEDERICA NIGHTINGALE

Foto dal web






In questo post vi segnalo la pubblicazione di una mia raccolta di Poesia in lingua inglese, apparsa su http://www.outsiderwriters.org/archives/3666

Spero vorrete visitare il sito che merita da solo un click in più del vostro tempo e la pagina a me dedicata.

Grazie e buon week end a tutti.

mercoledì 21 ottobre 2009

FEDERICO FEDERICI












Estratti da " L'Opera Racchiusa"- Lampi di Stampa, Milano, 2009




pochi, fratelli e sorelle, che sono amori e amici

in colmo all’invisibile restano del mondo voci

e d’altri appena gli occhi; accolti in una turba scura

defilano in preda all’aria, scossi come si riscuote

l’albero nei rami alti lungo i muri, lasciano cadere

polline e capelli, la segatura tarme ai buchi


chino il capo sui tormenti di una piaga fitta

sulla pelle in luce li tortura l’ombra, respirano

accostati ai vetri come reliquie i santi


§


lascia che a dire siano le cose

gli abitatori del mondo addossati alla cruna

dell’ago, le lingue impresse a memoria


l’elencazione dei nomi dei morti toglie il respiro


tempo è di dare le mani nell’andirivieni dei vivi

fermare gli occhi, lo sguardo a chi trema


§


un’attesa grigia abita la nebbia

porta ai fianchi l’erba sulla casa

che ci aspetta, ma non è ritorno

questo di noi due nel luogo

dove stare nel momento atteso

della vita, a coltivare le radici

dei capelli, i palmi che raccolgono

le ciglia ai fiori aperti, sibilanti all’aria


solo in due a dividerci le ossa, i rami

§


l’hanno già detto tanti, non siamo stati

gli ultimi a scriverlo in questo suono

di carte e tarli, scoli e macerie, crepe

d’acciaio nei lavandini; solo le querce

sui labirinti oscurati, giardini o corridoi

vuoti; l’estate ha un passo chiuso

ancora consacra alla chiarezza i giorni


viene la sera terrestre dopo il temporale

s’apre la pietra al fuoco che la tormenta

ora che muove appena un’ombra di noi

due tornati senza tornare; più d’ogni altra

dài regolata la mano in nudità di fiore

alla bocca, il suo bianco aspetto ferma

l’aria, piena di misurato respiro, stretta,

amata quanto desiderata, senza poterlo



Federico Federici ©





Biografia:

Federico Federici (Savona, 1974), laureato in Fisica. Dal 2000 al 2004 svolge attività di ricerca presso la sezione INFM del Dipartimento di Fisica dell’Università di Genova, nell’ambito della Fisica dei biosistemi, occupandosi principalmente di microscopia confocale e microscopia con eccitazione a due fotoni.Ha pubblicato, di poesia, a nome Antonio Diavoli, Ardesia (ShortEdit, Savona, 1996), Versi Clandestini (Studio64, Genova, 2004), Quattro Quarti (Il Foglio, Piombino, 2005), N documenti in cifra (Cantarena, Genova, 2006), Chiuderanno gli occhi (con Ilaria Seclì) (Cantarena, Genova, 2007), una selezione di testi da Profilo minore, con una introduzione di Luigi Metropoli, nell’antologia Leggere variazioni di rotta (Le Voci della Luna, Sasso Marconi, 2008); di critica La nuovissima poesia russa (PaginaZero n. 8, 2005), Santa Cecilia e l’angelo: una lettera a Massimo Sannelli (Cantarena n. 30, 2006), Una poesia senza eroe? Nika Georgievna Turbina (PaginaZero n. 9, 2006); le traduzioni One window and eight bars, di Rati Saxena (Cantarena, Genova, 2008), Sono pesi queste mie poesie, di Nika Turbina (Edizioni Via del Vento, Pistoia, 2008); di prosa la storia Le cose che non ricordo, illustrata da Alice Socal, nel catalogo Blog e Nuvole (Comma22 Edizioni, 2009).Suoi testi sono usciti su rivista «Atelier», «Cantarena», «Conversation poetry», «Private», «Kritya», «Maintenant, journal of contemporary dada writing and art», «Lo Specchio» de La Stampa, «Ulisse» e su siti internet di carattere letterario.La raccolta Versi Clandestini è stata segnalata nel corso della trasmissione Fahrenheit (Radio 3) nell’ambito del book crossing.Suoi testi sono stati tradotti in inglese, francese, spagnolo, tedesco, russo e arabo.Ha tradotto dal russo Elena Fanajlova e Nika Turbina, dal tedesco Paul Celan, Hans Arp, Katarina Frostenson, Merja Virolainen, Daiva Čepauskaitė, dall’italiano in inglese Cesare Pavese, Gian Paolo Guerini, Paolo Fichera, dall’inglese Sophie Hannah, Alice Oswald, Renáta Vargová, Rati Saxena.Ha preso parte a incontri e letture in Italia, India, Germania e Polonia, a mostre di pittura in Italia e Germania, a manifestazioni legate alla videopoesia e al cortometraggio in Italia, Germania e Venezuela.Nel 2009 vince il “Premio Lorenzo Montano” nella sezione “Opera inedita” con la prima raccolta di versi a proprio nome, L’opera racchiusa (Lampi di stampa, Milano, 2009).

lunedì 19 ottobre 2009

JEAN MARIE GUSTAVE LE CLEZIO

Zinaida Serebryakova







L'INEDITO DI Le Clézio PUBBLICATO NEL 2004 SUL CORRIERE DELLA SERA

Sogni e paure di un bambino in guerra.
Un'autobiografia «fantastica» dove vince l'amore per la madre.
Il testo «Nascere in una guerra» qui pubblicato è stato scritto da Le Clézio per il Festival internazionale Letterature di Roma del 2004.

***


Sono nato sorridente. Me l'hanno rimproverato spesso, come se io c'entrassi qualcosa. Chi è nato in un'isola ha spesso quel sorriso fisso che irrita gli abitanti delle città. Loro vi leggono chissà quale segreto, un'ipocrisia, o il segno di un animo debole, se non proprio di sempliciotto. Quando si nasce da una madre che proviene da un'isola, si sa d'istinto che un giorno bisognerà tirarsene fuori, affrontare gli altri. Si sa anche, giacché tutti si adoprano per farvelo sapere, che l'universo non si riduce a quel perimetro, che non è piccolo, non è buono, e che, attorno a voi, la gente non ha bisogno di voi. Ecco perché le persone che sono cresciute in quella cerchia ristretta, legate a un'isola natale, si costruiscono quanto prima quel falso sorriso che serve loro da corazza. Quando sono uscito dal mio isolamento, dopo quell'orrenda guerra, avevo quel sorriso fisso. I compagni di scuola m'interpellavano: «Perché sorridi sempre?». Altri aggiungevano, come se fosse una spiegazione: «Non sarai un po' negro, te?».Io non sapevo cosa rispondere. Non sapevo com'ero. Non conoscevo mio padre. Immaginavo che dovesse essere come me, la pelle scura, le labbra carnose, e quel sorriso immobile che non significava niente. In seguito, ho imparato a difendermi. Dicevo: «Non è un sorriso, è un ghigno». Il solo momento in cui il mio sorriso si cancellava era quando un aereo passava bassissimo nel cielo, e il rombo del suo motore mi straziava le orecchie. C'era la guerra. Non c'erano uomini in casa, salvo mio prozio Monsieur Lucien, ma non ero sicuro che fosse davvero un uomo. Era altissimo e magro, con una voce sottile. Gli volevo molto bene. Mia nonna era bassa e robusta, con una crocchia di capelli neri e occhi grigi grigi. Era lei che decideva tutto, che comandava in tutto e per tutto. Mia madre era bellissima. Mi ricordo di lei a quel tempo, era alta, magra, con capelli nerissimi, una pelle color pan pepato (qualcuno glielo aveva detto, un giorno), occhi a loro volta neri, frange di ciglia fitte. D'estate, passava il tempo in costume da bagno, al sole, nell'erba del giardinetto dietro casa. Lo faceva all'inizio, poi sono arrivati i nemici e mia nonna le ha proibito di stare fuori.La pelle delle sue gambe, sulle tibie, era scura e lucente, mi piaceva passarci sopra la punta delle dita, era liscia e calda come un sasso levigato dal mare. C'era la guerra. Non c'era niente da mangiare. Non c'erano soldi. Le notizie dovevano essere angoscianti. Eppure, mi ricordo di mia madre come di una persona allegra e spensierata. Le piaceva canticchiare canzoni creole, suonare la chitarra. Le piaceva anche leggere, poteva rimanere per ore sprofondata in un libro come La nascita di Jalna. Grazie a lei, è rimasta in me la convinzione che, quale che sia la difficoltà del momento, la realtà rimane un segreto, e che soltanto sognando si è più vicini al mondo. Mia nonna era diversissima. Era una donna del nord, della zona di Arras o di Compiegne, di una lunga stirpe di contadini duri e autoritari. Si chiamava Germaine. Credo di aver capito prestissimo quanto ci fosse di volitivo, di gretto e di caparbio in quel nome. Ce l'aveva a morte con i nemici che avevano invaso la Francia. Non ne pronunciava mai il nome. Aveva perso il marito durante la Grande Guerra. Aveva allevato il figlio unico, e il fratello minore dopo l'incidente. Tutto questo l'ho capito soltanto molto tempo dopo.Anche di mio padre, non ho saputo niente. Era partito, un giorno, e non era più tornato. Ma in pratica non avevo alcun ricordo di lui. Un'ombra, forse, una sagoma sfuggente. Di mio nonno paterno rimanevano soltanto poche fotografie incorniciate nella stanza della nonna. Anche una Bibbia, e dei libri di Emanuel Swedenborg su cui ho imparato a leggere. Mia madre aveva un nome dolcissimo. Un nome d'isola e di fiume, che si addiceva al suo sorriso, al colore della sua pelle e alle musiche della sua chitarra. Si chiamava Rosalba. La guerra è quando si ha fame e freddo. Non fa sempre più freddo quando si è in una guerra? Nonna Germaine diceva che le due guerre da lei conosciute, la «Grande» e poi l'altra, la «porcheria», quella scoppiata quando io avevo un anno, erano state entrambe caratterizzate da estati torride, seguite da inverni terribili. Raccontava, ricordo, che nell'estate del '14 le allodole nei campi avevano cantato: «'st'està, 'st'està!». E che due giorni dopo i muri erano tappezzati di manifesti della mobilitazione. Germaine non aveva detto che gli uccelli avevano cantato durante l'estate del '39. Aveva però detto che suo figlio era partito sotto una pioggia torrenziale. Aveva baciato la moglie, mi aveva preso in braccio, e se n'era andato senza voltarsi. In montagna, faceva freddo a partire da ottobre. Ogni sera pioveva.Le strade erano ridotte a torrenti che facevano una musica triste. C'erano molti corvi appollaiati nei campi, tenevano le loro riunioni, e i loro gridi striduli riempivano il vuoto del cielo. Noi abitavamo al primo piano di una vecchia casa di sasso, all'uscita del paese, verso l'alto. A pianterreno, c'era uno stanzone vuoto che in passato era stato un negozio di generi alimentari e rivendita di patate. Le finestre del negozio erano state murate. Erano gli ordini dei nemici. Temevano gli attentati. Lo stanzone fungeva ancora da magazzino. Un pomeriggio, la proprietaria, la signora Carrignon, aveva aperto la porta e io avevo scorto il negozio in penombra, gli scaffali vuoti, le damigiane unite da ragnatele, e sul pavimento, reso fantasmagorico dalla luce grigia, cenci e sacchi vuoti, simili a cadaveri. «Cosa ci fai qui? Via, sciò!». La signora Carrignon era comparsa sulla soglia, con indosso il grembiule color dei vecchi sacchi di patate, con ragnatele intessute ai capelli. Era pallida, aveva un solo dente che posava sul labbro inferiore. Faceva paura a tutti i bambini del paese. La guerra era soprattutto l'odore, un odore che non posso dimenticare. Un misto di muffa, di fumo, un odore di castagna e di cavolo, qualcosa di freddo, d'inquietante.La vita passa, si cambia, si dimentica. Ma l'odore della guerra resta, a volte torna senza che ce lo aspettiamo. Con quello tornano i ricordi, la lunghezza, la lunghezza di quel tempo, quando sembra che le giornate, i mesi, gli anni siano senza fine. Che il nemico rimarrà sempre, non se ne andrà mai, che occuperà il suolo e le strade del paese sino alla fine del mondo. La mancanza di soldi. Come se ne accorge, un bambino di quattro anni? Che nonna Germaine ne parlasse talora con mia madre, la sera, dopo la zuppa di rape, mentre io sonnecchiavo coi gomiti sul tavolo guardando i disegni sulla tela cerata che si muovevano? «Come si fa con il latte, il pane, le verdure? Costa tutto così caro!». Non sono i soldi che mancano, sono i modi di passare il tempo. I modi di non pensare più al tempo, di non avere paura del giorno che finisce, della notte, del giorno che sta per nascere. Quella paura che si mescola all'odore del paese, al freddo della valle incassata dall'inverno, all'ombra del picco delle Abeilles che avanza come un'ala. Il picco è lo sperone roccioso che domina la valle, che minaccia il paese. La nostra casa è sul bordo della strada che va verso l'alta montagna, nel punto in cui la valle si restringe forzando l'acqua del fiume verso la chiusa.Ma a me piace il fiume, il suo rumore, il suo odore. Non è come l'odore di cantina che sale dalle tavole dello stanzone dove i cenci sono spoglie dimenticate. Il fiume fa una musica quasi dolce, mi fa lo stesso effetto della voce di mia madre Rosalba quanto canta accompagnandosi con la chitarra, o quando mi legge qualcosa, la sera, nel suo letto, io e lei avvolti stretti nelle coperte per scaldarci. O la voce della pioggia che deve cadere ogni sera mentre dormo, quando l'ombra del pizzo delle Abeilles avanza come un'ala di corvo. La stanza in cui vivere era la cucina. Le tre camere erano nere e fredde. Davano su una ripa sassosa dove l'acqua scorreva in continuazione. La cucina si apriva sulla strada, con due finestre e un balcone dove la nonna teneva le provviste al fresco. La sera, nonna Germaine metteva la carta blu alle finestre per via del coprifuoco. Io passavo la maggior parte del tempo in cucina. Lì c'era sole anche in pieno inverno. Durante il giorno non c'era bisogno di tende perché non avevamo dirimpettai. La via che passava sotto le finestre di cucina era la strada per i monti. Non ci passava molta gente. La mattina, verso le sette, la corriera asmatica a gasogeno che portava ai paesini di alta montagna faceva un rumore smorzato. Quando la sentivo arrivare, mi precipitavo a vedere l'enorme insetto metallico senza muso e senza cofano, il tetto coperto di carabattole avvolte nella tela e legate.La fermata del bus era un po' più in giù, sulla piazza. Stando al balcone, potevo scorgere, al di là dei prati a ridosso del fiume, i tetti del paese nuovo con il campanile quadrato e l'orologio con i numeri romani. Non sono mai riuscito a leggere l'ora, credo che l'orologio si fosse rotto all'inizio della guerra. Mi pare che segnasse sempre mezzogiorno. La cucina, in primavera, si riempiva di mosche. Nonna Germaine diceva che erano stati i nemici a portarle. «Prima della guerra non ce n'erano così tante». Mio zio Monsieur Lucien la prendeva in giro. «Come fai a saperlo? Le hai contate?». Lei non demordeva. «Già nel '14 si sono viste arrivare a Compiegne, dovresti ricordarlo. Nuvole di mosche. Si diceva che ne avevano portate a panieri e le lanciavano su di noi per demoralizzarci». Per lottare contro di loro, nonna Germaine appendeva strisce di carta gommata alla lampadina. Data la penuria, usava sempre la stessa striscia, che puliva ogni sera. Così facendo, però, toglieva lo strato di colla e dopo poco, più che da trappola, la striscia serviva da posatoio per le mosche. Quanto a Monsieur Lucien, lui usava un metodo più radicale. Armato di una paletta rabberciata cento volte, ogni mattina partiva in caccia. Diceva che non si sognava nemmeno di fare colazione se prima non aveva ammazzato il suo centinaio di mosche. Era così che avevo imparato a contare [...].

Jean-Marie Gustave Le Clézio (traduzione di Francesco Bruno)
Dal «Corriere della Sera» del 27 maggio 2004

giovedì 15 ottobre 2009

ERNESTO COPPO


John Constable











IRISH




Varengo,19 novembre 1997




Croci celtiche,


i frutti di pietra


dell'etereo mattino,


s'inghirlandano di foglie:


dorate lamine di quercia


e d'ippocastano.




T'alzi


e nastri di sole passi


nei tuoi rossi capelli,


la nebbia funerea dispare


e sotto il gelo,


rigoglioso rinasce,


il giardino dei tuoi occhi.








UNA GIORNATA DI PIOGGIA




Novara, 30 maggio 2007






A volte


nella polla del mio cuore


la pioggia increspa


gli specchi infiniti


del quotidiano


col tremore della malinconia




Sono freddi baci


e brividi repentini


che un battito di ciglia


scrollano via




Ma loro,


tristi farfalle attardate,


s'affannano


su albe bianche




E nel crepuscolo infuocato


dall'anima


volano stanche.






Ernesto Coppo ©


da "Una giornata di pioggia" - IlFilo Edizioni, 2008








Biografia:




Ernesto Coppo è nato nel 1975 a Casale Monferrato (Al) ma risiede a Gabiano (Al). Si è laureato in Giurisprudenza presso l'Università di Torino nel 2003; entrato nella Polizia di Stato nel 2001, attualmente ricopre il grado di Comissario.


"Una giornata di pioggia" è la sua prima opera pubblicata.


martedì 13 ottobre 2009

CONCORSO "GLI AQUILONI" - S. FRANCESCO

AlbusEdizioni


http://www.albusedizioni.it/

info@albusedizioni.it


Concorso Gli aquiloni
S. Francesco d´Assisi


Altissimu, onnipotente bon Signore,Tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione.
Ad Te solo, Altissimo, se konfano,et nullu homo ène dignu te mentovare.
Laudato sie, mi' Signore cum tucte le Tue creature, spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumeni noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:de Te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si', mi Signore, per sora Luna e le stelle:in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si', mi' Signore, per frate Vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento.
Laudato si', mi' Signore, per sor Aqua,l a quale è multo utile et humile et pretiosa
et casta.
Laudato si', mi Signore, per frate Focu, per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si', mi' Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.




Il testo più antico della letteratura italiana, una lode a Dio e alle sue creature, una preghiera...
Ne abbiamo riportato solo la prima parte, ma il cantico è noto a tutti.
La natura e il suo Creatore sono ispirazione di tanti componimenti, proviamo a raccoglierne qualcuno per Gli aquiloni, collana ispirata ai classici che da spazio agli autori contemporanei.

Inviate le vostre poesie, di max 30 versi (righe bianche comprese), entro il 15 gennaio 2010 a: Elena Grande, elenagra@hotmail.it con una mail recante l´oggetto: Gli aquiloni - S. Francesco.
Nel corpo della mail specificare: i dati anagrafici (nome, cognome, luogo e data di nascita), indirizzo completo, indirizzo e-mail e numero di telefono dell´autore.

I migliori componimenti saranno scelti per una raccolta della collana Gli aquiloni della AlbusEdizioni.
La partecipazione all´iniziativa editoriale è gratuita e implica il consenso alla pubblicazione per la prima edizione dell´antologia ed eventuali ristampe e al trattamento dei dati personali in base alle normative vigenti in materia di privacy.

lunedì 12 ottobre 2009

BLAGA DIMITROVA











SENZA AMORE


Da questo momento vivrò senza amore.

Libera dal telefono e dal caso.

Non soffrirò. Non avrò dolore né desiderio.

Sarò vento imbrigliato, ruscello di ghiaccio.


Non pallida per la notte insonne -

ma non più ardente il mio volto.

Non immersa in abissi di dolore -

ma non più verso il cielo in volo.

Non più cattiverie - ma nemmeno

gesti di apertura infinita.

Non più tenebre negli occhi, ma lontano

per me non s'aprirà l' orizzonte intero.


Non aspetterò più, sfinita, la sera -

ma l'alba non sorgerà per me.

Non mi inchioderà, gelida, una parola -

ma il fuoco lento non mi arderà.

Non piangerò sulla crudele spalla -

ma non riderò più a cuore aperto.

Non morrò solo per uno sguardo -

ma non vivrò realmente mai più.


***



ABBRACCIO

Cuore nel cuore. E respiro nel respiro.
Così vicino a me, tanto da non vederti.
Oltre la tua spalla vedevo in lontananza un monte oscuro.
Ero protesa in uno slancio quasi a oltrepassarti.

Sentivo battere il cuore impazzito delle stelle.
Accoglievo il vento affannato, rivestito di foglie.
Mi aprivo alle ombre dei boschi che venivano incontro
e ai rami che si aprivano ad abbracciare la notte.

La lontananza inspiravo in un sorso enorme.
Premevo vento, nubi e stelle al mio petto.
E nel cerchio stretto di un abbraccio
ho rinchiuso l'infinito intero del mondo.


***



INCROCIARE LO SGUARDO


Incrociare lo sguardo -

questo tremolio di raggio,

che ti trafigge

fino a baratri ignoti

dentro di te,

affogati nell’attesa.


L’esistenza si dischiude

nell’attimo in cui incroci lo sguardo:

senza limite di frontiere,

senza ombra di dipendenza,

senza scopo, senza paura,

senza determinazione alcuna.


In un attimo il tocco leggero

dell’indivisibile completezza

del mondo creato.

Incrociare lo sguardo,

sentire la musica

della luce stessa.


Un sublime attimo di libertà.

In un balenosi

incontrano due raggi

di due contrapposti universi:

il raggio ardente del corpo

e il raggio fresco dello spirito.


Una domanda che è un lampo.


E il segreto negli abissi profondi

ti chiama per essere svelato

e tuttavia rimanere segreto.

È ciò a cui sei votato

in questo strano mondo –

incrociare lo sguardo.


Blaga Dimitrova



Sue notizie bio-bibliografiche qui: http://en.wikipedia.org/wiki/Blaga_Dimitrova

giovedì 8 ottobre 2009

INTERVENTO DI VITO MANCUSO A "TORINO SPIRITUALITA'"

Foto di Federica Nightingale ©










L’intervento di Vito Mancuso a “Torino spiritualità"

Quando si dice un uomo vero

È una dimensione dell´esistenza, uno dei rari concetti che può definire una persona.

Ci si consegna a qualcosa più grande di sé acquisendo una peculiarità personale.

Anticipiamo parte dell´intervento che pronuncerà domenica, giornata di chiusura di «Torino spiritualità», la rassegna iniziata mercoledì e intitolata «Dis-inganno. Dietro ciò che appare ciò che è».


Già con le opere d´arte l´autenticità è una questione complessa: quel crocifisso sarà veramente di Michelangelo? Quei due brani saranno davvero inediti mozartiani? Spesso si accendono discussioni infuocate, ma quasi mai si riesce a stabilire chi ha ragione. Un´eccezione abbastanza spassosa si ebbe a metà degli anni Ottanta a proposito di alcune sculture a forma di teste umane ritrovate a Livorno e presto attribuite a Modigliani dai maggiori critici, e che invece poi si scoprì essere una burla ottimamente congegnata.Ma se è complessa per gli oggetti, tanto più la questione dell´autenticità lo è per la vita, notoriamente ben poco oggettivabile. A questo proposito io mi chiedo se esista, e quale sia, il criterio dell´autenticità di una vita, e spiego ciò che intendo con una celebre pagina di Shakespeare. La battaglia di Filippi si è conclusa, i capi dei congiurati sono morti, l´assassinio di Cesare è finalmente vendicato. Nel vedere il cadavere di Bruto però, Antonio dichiara: «Gli elementi erano così composti in lui che la natura potrebbe levarsi e proclamare a tutto il mondo: Questo era un uomo!" (Giulio Cesare, 5, 5). Antonio aveva mosso guerra a Bruto fin dal primo istante, ma ora di fronte al suo cadavere sente salire dentro di sé un irresistibile senso di rispetto: «Questo era un uomo!». Io mi chiedo quale sia quella qualità che, persino di fronte a un nemico mortale, ci fa sentire in presenza di "un uomo", mentre in assenza della quale, anche con un amico o un alleato, avvertiamo di essere in presenza di uno spirito servile. Mi chiedo che cosa fa di un uomo "un vero uomo". È questo che intendo con "autenticità della vita", ed è questo l´oggetto che vado a indagare (…).

L´autenticità è una dimensione sintetica dell´esistenza, uno di quei rari concetti che può servire da sigla complessiva per definire un uomo per quello che veramente è, al di là di quello che possiede, di quello che sa, e anche al di là di quello che compie. Che un uomo non sia autentico grazie alle sue ricchezze o alla sua erudizione, penso non ci sia bisogno di rimarcare. Ma io aggiungo che non bastano neppure le azioni, perché persino dietro atti eroici e gesti sublimi di carità ci può essere solo narcisismo. Lo sottolineava già san Paolo: «Se anche dessi in cibo tutti i miei beni ma non avessi l´amore, a nulla mi servirebbe».Io ritengo che nella pienezza del concetto di autenticità siano presenti due dimensioni, una soggettiva e una oggettiva. La prima riguarda il rapporto del soggetto con se stesso e si traduce in genuinità, spontaneità, schiettezza. La seconda riguarda il rapporto del soggetto con gli altri e si traduce in sincerità, onestà, fedeltà, giustizia. Mi soffermo anzitutto sul livello soggettivo dell´autenticità. Dato che ogni essere umano è in se stesso interiorità ed esteriorità, la situazione di autenticità soggettiva si ha quando tra l´esteriorità (le parole che uno dice, le azioni che uno compie) e l´interiorità (le intenzioni che lo animano, i sentimenti che prova davvero) c´è armonia. Un uomo così dice quello che pensa, compie quello che crede, sente davvero quello che manifesta. Ognuno di noi infatti è abitato da una duplice melodia: una melodia interiore che risuona da sé quasi in modo necessario («per l´uomo il carattere è il suo destino», diceva Eraclito) e una melodia esteriore che eseguiamo consapevolmente in relazione agli altri con le parole, le azioni, i sorrisi, i silenzi e le altre consuete cerimonie quotidiane. Ognuno contiene una sorta di polifonia: da un lato il canto fermo o basso continuo rappresentato dalla musica che scaturisce dal temperamento personale indipendentemente dalla volontà, e dall´altro il motivo dominante, più acuto, più elaborato, dato dalle azioni e dalle parole volontarie, che si sovrappone al basso continuo del temperamento. Quando tra i due motivi c´è armonia, siamo in presenza di una persona soggettivamente autentica, e questo è ciò che io definisco il primo livello dell´autenticità umana.Esso però non basta perché esiste una seconda dimensione della vita autentica, che concerne la qualità oggettiva della prospettiva per la quale si vive. Un uomo infatti al proprio interno può essere del tutto autentico, ma tuttavia vivere per un ideale sbagliato. Il caso esemplare è il fanatismo, politico o religioso. Abbiamo a che fare con veri e propri asceti, nessun dubbio al riguardo, ma asceti dell´idiozia, talora persino del crimine. È probabile che Osama Bin Laden (una specie di Bruto alla potenza) sia soggettivamente del tutto autentico, così fedele al suo ideale da rischiare ogni giorno la vita, per di più senza festini, né ville, né escort, solo un mitra e una copia del Corano. Forse anche Hitler era così soggettivamente irreprensibile, forse anche Lenin e Stalin, forse anche i brigatisti rossi e neri. Forse anche Torquemada, il fondatore dell´Inquisizione spagnola, era soggettivamente autentico, e forse lo era anche san Roberto Bellarmino, cardinale e dottore della Chiesa, che fece bruciare vivo Giordano Bruno perché non aveva abiurato e anni dopo risparmiò l´anziano Galileo perché invece aveva abiurato, e forse lo è anche l´attuale vescovo di Recife in Brasile che ha scomunicato la madre di una bambina di 9 anni per aver autorizzato l´aborto sulla figlia in pericolo di vita perché incinta (di due gemelli) in seguito alle violenze del patrigno. Tutti uomini soggettivamente autentici. Ma l´ideale a cui un uomo è fedele può essere distruttivo per gli altri e una prigione per lui. Occorre quindi un secondo livello per una vita realmente autentica, il livello che concerne la qualità dell´ideale che attrae e modella l´energia vitale. A questo riguardo annotava Marco Aurelio: «Ognuno vale tanto quanto le cose a cui si interessa». Parole corrispondenti a quelle del suo quasi contemporaneo Gesù di Nazaret: «Dov´è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore».A questo secondo livello il concetto di autenticità rimanda a una specie di permanente tensione di tutto noi stessi verso la verità o (che è lo stesso alla luce del concetto relazionale di verità) verso la giustizia. Si tratta di una tensione che conduce il soggetto a uscire da sé superando i suoi interessi immediati, compresi quelli del partito o movimento o chiesa in cui milita, a cui non sacrificherà mai la sua onestà intellettuale, a cui non venderà mai la sua anima. La fedeltà alla verità e alla giustizia è per lui l´unica stella polare. In questa uscita da sé il soggetto però non si perde, ma si ritrova a un livello più profondo, e si compie divenendo un vero uomo. È la vita autentica. Il vero uomo è colui che ha trovato qualcosa più grande di sé per cui vivere, ma che proprio per questo acquisisce un timbro personale inconfondibile. Si consegna a qualcosa più grande, ma lungi dall´alienarsi diviene veramente se stesso, acquisendo una peculiarità personale per descrivere la quale ricorro ancora una volta a Shakespeare: «Dammi quell´uomo che non è schiavo della passione, ed io lo porterò nell´intimo del mio cuore, sì, nel cuore del mio cuore» (Amleto, 3,2).
***
Biografia:
Vito Mancuso (vitomancuso@alice.it) è docente di Teologia moderna e contemporanea presso la Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano. Nato nel 1962 a Carate Brianza da genitori siciliani, è dottore in teologia sistematica. Dei tre gradi accademici ha conseguito il baccellierato a Milano, la licenza a Napoli, il dottorato a Roma presso la Pontificia Università Lateranense.Vive con la moglie e i due figli sulle colline del Monferrato.Oltre a traduzioni dal tedesco e dall’inglese, ad articoli su riviste specializzate (Communio, Asprenas, Filosofia e Teologia, Religione e Scuola, Rassegna di Teologia), a partecipazione ad opere collettive e a direzione di collane (tra cui “Uomini e Religioni” presso Mondadori), ha pubblicato:- Hegel teologo, Piemme 1996;- Dio e l’angelo dell’abisso, Città Nuova 1997, con prefazione di Mario Luzi;- Le preghiere più belle del mondo, Mondadori 1998, insieme all’abate benedettino Valerio Cattana;- Il dolore innocente. L’handicap, la natura e Dio, Mondadori 2002, con prefazione di Edoardo Boncinelli;- Per amore. Rifondazione della fede, Mondadori 2005. Ha ottenuto molte recensioni, tra cui: Repubblica (Umberto Galimberti), Corriere della Sera (Claudio Magris), Il Giornale (Gianni Baget Bozzo), Il Sole 24 Ore (Giuseppe Pontiggia, Bruno Forte, Gianfranco Ravasi), Avvenire (Bruno Forte), Famiglia Cristiana (Ferruccio Parazzoli), L’Osservatore Romano (Rodolfo Doni). Al suo ultimo libro Panorama ha dedicato un servizio di tre pagine a cura del capo cultura Mauro Anselmo. Il mensile Il Regno ha scelto Il dolore innocente come “libro del mese”, e lo stesso ha fatto il mensile Letture con Per amore. Sia Il dolore innocente sia Per amore sono stati selezionati tra i primi dieci libri del Premio Viareggio per la sezione saggistica. È stato ospite tv a Rai Tre (Le Storie di Corrado Augias), Canale 5 (Maurizio Costanzo), Sat 2000, Telenova, e su diverse radio tra cui Rai Tre e Radio 24 Il Sole 24 Ore. Suoi articoli sono apparsi su Repubblica e Avvenire. Collabora stabilmente con il settimanale Panorama.

mercoledì 7 ottobre 2009

AXEL



John Everett Millais - Ophelia






Il Buon Gelo – (Yoi Shimo – Haiku)






Foglia sull’acqua

Chiusi gli occhi all’estate,

Abbandonarsi.





Axel ©

lunedì 5 ottobre 2009

LUNASEPOLTA


Herbert James Draper











Solisti


non è facile trovare disequilibri

sui piccoli mondi, quelli dei fiori, delle foglie

del verde che alza e abbassa il cielo

e svapora d'anse, cirri e gallerie

mentre l'oggi di te in passerella
s'allenta, ritorno dopo ritorno

io vesto il nero come in un film del '53

abituo spalle ai nodi e butto scarpe

alla calca notturna degli strati

sotto un sudore quasi sempre finto
solo lassi predestinati, i nostri mondi

solisti nelle ciotole di riso, tra

le calligrafie che non saranno e

il non tornare con la stessa mano






***






Manca




manca d'amarti, sul ciglio

di periferia,

stranamente sconnessa

a un mondo che mi preme

satura di doni, chiusi

peggio,

altrimenti, in un caffè più buono



ai portici adorni di gerani e sale
insetti che vengono a morire



tu stai distante, nei tuoi settori

di un luna park abbiente, scrostato

d'avarizia e pesticidi



quasi fosse pura l'aria che respiri




di tanto in tanto, amore

torna a marcirti dentro, quale

entropia, da me disgiunta

clessidra che diventa imbuto

pozzo incidente, macchina da guerra



vorrei prepararmi come interpunzione,

fossi tu

l'orchestra, la risposta









***





Azzardi d'opera




se non domani o tra una settimana

cercheremo i riverberi di un lunedì

anche successivo con lo stesso male al polso

ticchettio d'acanti quasi uguale

al rumore della terra rossa

come la punta di un ago



finché non suona la mezza ora, ora



dovrei riprendere a guidare
e la mia vita, dietro tagli nuovi

o tavoli a fratino, quando la sete

resta imbandita d’avanzo all’estate

adunanza



d’erbe mediche e alveari

reciproci azzardi d’opera

e di suoni oppure strade sbagliate



comunque sia di un giorno

finalmente questo, che credo propizio

a carte nuove, pastelli di sanguigna

mentre sarà un manipolo di stracci

di sorprese, forse
Lunasepolta ©

giovedì 1 ottobre 2009

INEDITI

foto di F. Nightingale ©





Pubblicate oggi tre poesie inedite di Federica Nightingale sul blog di Poesia e letteratura di Antonio Spagnuolo




Ringrazio Antonio per la sua ospitalità!
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