Photobucket

Traducendo Einsamkeit

STANZE DEL NORD

SCORRONO LE COSE CONTROVENTO di FEDERICA GALETTO

ODE FROM A NIGHTINGALE - ENGLISH POEMS

A LULLABYE ON MY SHOULDER di Federica Nightingale

EMILY DICKINSON

mercoledì 30 settembre 2009

MASSIMO BOTTURI

Felice Casorati









E’ con grande piacere che compilo questa breve nota di lettura per il libro “Scena madre” di Massimo Botturi. In “Scena madre”, l’autore rende la Poesia fruibile e possibile, la slega da ermetismi e ritocchi coprenti; la sua poetica risplende di purezza e stile asciutto nell’impronta forte di un realismo dettagliato che ci riporta contemporaneamente al passato, al presente e al futuro raccontati nel flash emotivo di una scena centrale, la scena madre del titolo, parte di un cortometraggio poetico.
E’ una raccolta questa che parla di amore, conflitti, memoria, che racconta in ogni sfumatura anche brutale la campagna e i suoi angoli di delizia, la sua gente, il lavoro e le cose iniziate e mai finite, i progetti lasciati in eredità a chi ancora vive e ricorda. Una raccolta che traccia profili lucidi di gente comune e grandi scrittori amati dal Poeta, le sue Icone, omaggio ai grandi che hanno attraversato il ‘900. Profonde parole spicciole per raccontare vita quotidiana e miserie,gioie e dolori della vita di ognuno nelle quali riconoscersi e cullarsi per non dimenticare.
Un libro che commuove e fa sorridere, nel seguire lo sguardo disincantato di chi sa aspettare per vedere e trovare il nocciolo di un insieme di gesti che fanno un’esistenza. Nei suoi “conflitti”, le guerre e le tribolazioni di chi ha combattuto per la libertà, nei suoi “Quasi d’amore”, il risveglio al desiderio e le umane gioie del sentimento e delle passioni. Un libro di varia umanità e profonda comprensione del vivere e dell’ascoltare il mondo nei suoi piccoli e grandi passi.

Massimo Botturi – Scena Madre
OTMA Edizioni, Milano - 2009




Alla Poesia

SCENA PRIMA

Ho mosso bene il globo di luna
un quarto appena:
ché illuminasse, netta
ogni tua parola rara.
Ed ogni vena ho teso
allo spasimo d’amore.
Così ho veduto i pesci salire la corrente
le reti d’altre mille tonnare
i fuochi al prato. La sabbia spinta
e l’uomo che ha sete.
Io, mortale
talvolta
penso t’abbia creata l’altipiano
il Dio del fiume
e il sole d’autunno sulle rose.
Perché hai sorriso tutta la sera
ed era un niente
a farti le narici perfette, un niente d’ombra
appena sopra il labbro
dipinto di amarena





Cronache operaie


NOVECENTO

Quel trasgredire giovane, contento:
levare l’uovo dietro a una gallinella rossa,
tu dimmi
che sapevi di tutte le officine?
Di piazze con il porfido e le baionette in canna?
Che ne sapevi, padre, dei piccoli operai
del loro canto tutto straziato per il pane
per lavorare il giusto
e morire ai camposanti
con bare di ciliegio e i figli, là davanti?
Tu che trovavi il resto del vino alla tovaglia
e cicche americane da farci due tirate,
che ne sapevi d’altre bandiere
dell’esilio, di quei compagni fronte salina
e monti al cuore?
Tu che ti scavezzavi la schiena a poche lire
e che a vent’anni andasti soldato
col piacere, di mettere le gambe
alla mensa volte tre;
che ne sapevi, padre
di Gramsci e Fortichiari?
Del sindacato e nafta da mettere ai trattori,
di chiavi da picchiare sui torni
e i Grand Hotel,
di laghi dove i ricchi giocavano fortune.
Che mai potevi dunque sapere tu
che a scuola
ci andasti giusto il tempo di due carabinieri
venuti a minacciare tuo padre, poca roba.
Potevi immaginare la terra così dura?
lo schianto del lavoro, con sempre la paura
d’una tempesta o peggio
d’annate magre e niente mangiare
che sapevi? Di case alte come montagne
giù in città
e di cantieri volti all’America, di là
regina dell’acciaio e del ferro.
La città
con le sue moltitudini
le macchine, ed i tram.
I ponti d’autostrada
la radio, il frigo, si
da metterci l’avanzo a bottega.
E la tivù, che ci uccideva i cine
i teatri e l’allegria
di stare nelle bettole a cantare
e stare su, fin quando gambe e ossa potevano.
Ma si
è stato tutto un secolo di gloria
eccoti qua
a chiedermi se avanzo qualcosa a metter via;
ché nella vita è sempre la stessa geometria
chi non possiede niente, lavora
e così sia





La memoria


LA MAGLIA NUMERO DIECI

Le mani sulla rete metallica
le tue,
nell’oratorio fatto a misura a poca gente
che prende la sua giacca, domenica
e qui viene
ad ammirare i figli in braghette sul pallone;
a chiedersi se han fatto abbastanza
se il mangiare, sia quello di una giusta sostanza
e i libri
e il resto,
le scarpe dell’inverno passato
e poi il completo, tenuto inamidato all’armadio
per le nozze, i battesimi
e le volte che serve esser signori.
Si viene a rinculare lo schioppo della vita
che ci ha sparati verso ogni cosa
senza mira, senza capelli a chiuderci gli occhi
e allora andiamo!
a innamorarci piano
del fieno, e delle rose.
Del bene che, discrete
regalano le spose






Icone


OMAGGIO A FEDERICO GARCIA LORCA

Tra i fiordalisi la serpe venne al sole,
la serpe dei frumenti colore dell’ulivo,
colore dei bastoni che guadano il fossato.

E fu la gemma rotta
un rubino sangue leso,

dalla tua bocca aperta sul seno di quei prati;

dove lasciasti i baci più cari
e i forti odori di pane vendemmiato futuro d’allegria,

di danze nelle gambe d’arancia
e donne more, le giovani col petto di luna senza spina.
Chi t’ha veduto disse sembravi un estudiante:
nelle tue mani bianche una vena di radice,

la forza ch’è nel fiore che spacca pietre e buio,
la grazia della semina del vento
il filo d’erba da cogliere la sera

uscito il firmamento





Conflitti


CECOSLOVACCHIA ‘68

I carri sono entrati su piazza Venceslao
pestando fiori
e sogni
e valide ragioni.
I carri sono entrati fin dentro casa mia
togliendo l’ombra e il fresco
e il bello dentro i prati delle fotografie.
I carri sono entrati
come una malattia,
un burro troppo rancido
una pesa disonesta.
E han fatto un buco grosso
alla sporta della spesa;
così mia madre piange sul latte
e non consola,
e il padre mio già corre alla stalla
a fare via
le mosche alle mammelle dei figli.
Piange Jan, piange la scuola i libri
che mai più scriverà. La musica dei bronzi
i cavalli, le osterie. Piange la radio
in questa cantina, piangi tu
col petto colorato di maggio
piango anch’io



Quasi d'amore


A VOLTE T’AMO SENZA TOCCARTI

A volte t’amo senza toccarti
senza svegliarti
e dirti le voci dei bambini
che passano, e coi legni al cancello
fanno bella
la vita che li aspetta davanti
a volte è il pino
che manda quel profumo d’immenso
e di maestoso,
che mette l’ombra addosso al tuo posto
e ti fa scura,
tu che hai la pelle chiara
di margherita pura.
A volte t’amo senza toccarti,
l’ho già scritto,
ma tu lo saprai solo domani
ora consumi,
stai con la bocca aperta, per aria
i piedi fuori
da quel lenzuolo pieno di uccelli
e anche di te;
ora tu vai per mari
ed ulivi di paese,
ti compri un altro nuovo vestito
coi bottoni, le uova per tua madre
i biglietti per il treno.


Massimo Botturi ©



Biografia:

Massimo Botturi è nato e vive in provincia di Milano.
Impiegato presso un’unità produttiva, scrive per diletto e passione.
È presente in diverse antologie di poesia (Latitudini, Pagine edizioni. Navigando nelle parole vol.14, edizioni Il Filo. Anatomia di un battito d’ali, Liberodiscrivere edizioni.) e nell’ambito della prosa (“Il volo dello struffello” Liberodiscrivere edizioni.“Parole di carta - 2 “ Marsilio editore).
Nel 2003 è uscito il primo libro interamente a suo nome “Frutto acerbo” OTMA edizioni, Milano.
Nel 2007, per l’editore Liberodiscrivere, Musicalia - ballate sui vetri del tempo.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

grazie di cuore per l'ospitalità Federica. Sai che nutro la stessa stima nei tuoi confronti.
Massimo Botturi

Federica Galetto (Nightingale) ha detto...

Sei sempre il benvenuto qui Massimo : )
Un saluto caro

F. Nightingale

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...